Tempo di Covid
È trascorso un anno da quando il nuovo Coronavirus ha stravolto il nostro modo di vivere. Il ricordo del silenzio delle città deserte è impressionante. Il tempo si era fermato e noi eravamo immobili, in attesa.
Con la pandemia, la fragilità umana si è palesata tutta intera ai nostri occhi. Per molti è stato come risvegliarsi da un sogno: pensavamo di essere immuni da pericoli, ci eravamo dimenticati che siamo fragili come tutti gli altri abitanti del pianeta. Lo avevamo scordato e ora invece è evidente. Anche l’illusione di una scienza che tutto sa e che tutto può si è infranta, lasciando senza risposta il nostro bisogno di certezze. È stato inaspettato e non eravamo pronti.
Ogni individuo ha vissuto e sta vivendo in modo personale quest’epoca: la varietà e la complessità degli stati interni che ci hanno abitato non sono sintetizzabili in alcun modo. Molti avvertono la paura perché il nemico, microscopico, sfugge al controllo. Ci si sente tristi perché la gioia che abitualmente nasce in alcune occasioni ora è incrinata dal rischio del contagio. Tanti sono arrabbiati perché vorrebbero che qualcuno restituisse la libertà persa e ciò non accade.
La condizione di adesso, poi, è ancora diversa da quella della scorsa primavera: se il maggiore controllo sulla pandemia rassicura alcune persone, il prolungarsi dell’emergenza e il non riuscire a vederne la fine ci affaticano.
Lockdown e solitudine
Abbiamo conosciuto, soprattutto tra marzo e aprile, una solitudine e un tempo sospeso che non avevamo mai incontrato prima. Non siamo abituati a stare tanto in contatto con noi stessi. Durante quelle settimane impensabili, invece, fuori dalla corsa frenetica degli impegni e privi delle “distrazioni” consuete, ciascuno di noi si è trovato da solo con sé.
Per alcuni il lockdown è stata una parentesi buona, in cui ritrovare se stessi e gli affetti più vicini o in cui sperimentare un nuovo sentimento di comunanza con gli altri. Per altri invece ha rappresentato una vicenda gravosa: molti pensieri da cui spesso fuggiamo, infatti, hanno avuto in quel periodo la via facile per giungere alla nostra coscienza.
La chiusura forzata ha fatto emergere sofferenze latenti, che avevamo accantonato senza averle elaborate. Alcuni, annichiliti, si sono rintanati in casa al riparo della minaccia, perché il timore delle relazioni, che già avvertivano, si è ingigantito. Altri, non riuscendo a tollerare l’angoscia, hanno negato il pericolo: nelle loro menti lo hanno reso inesistente, “non accaduto”.
Entrare in contatto
Il greco Eschilo sosteneva che il dolore fosse l’inevitabile strada per giungere alla conoscenza, qualcosa da affrontare e da interrogare.
Per far ripartire quel tempo paralizzato di cui scrivevo nelle prime righe, possiamo allora provare ad interrogarne il dolore soggiacente, facendo leva sulle nostre forze interne.
Si tratta dunque di mettersi in contatto con quello che suscita dentro di noi il sentirci in gabbia, per esempio, o l’aver perso qualcuno che amavamo. Entrare in contatto con le emozioni significa riconoscerle e legittimarle. Significa cercarne le radici, per capire meglio i motivi per cui assumiamo alcune posizioni. Significa dar loro una forma che permetta di pensarle e anche di condividerle. Serve a sentirsi meno confusi e più vivi e a ricollocare il baricentro psichico dentro a noi stessi, per conquistare e riconquistare un equilibrio.
La pandemia ci invita a dedicarci ad un difficile compito: far nostra l’idea della fragilità umana, imparare a pensarla. Siamo nelle condizioni (ahimè) di poterci immedesimare nelle persone anziane, quelle che non possono tergiversare, che non possono eludere la prospettiva della fine. Il pensiero della morte, invece che annichilire, può ricordarci di trattare con dedizione ogni momento della nostra esistenza.
Prendersi cura del tempo che abbiamo a disposizione equivale a tener vive, dentro di noi, le relazioni: quella con noi stessi e quelle con gli altri. Possiamo ricavare e proteggere uno spazio d’introspezione in cui coltivare anche la nostra creatività: la situazione in cui ci troviamo è reale e come ogni accadimento, se assunto da un punto di vista vitale, esorta ad immaginare nuovi modi di vivere. Possiamo far maggiormente caso alla quota di responsabilità che abbiamo sulle vite altrui e sul mondo in cui abitiamo; sentire che siamo capaci di intessere legami significativi e di costruire benessere è un nutrimento che fortifica.
“Una melodiosa certezza di compagnia”
Nel romanzo “Erica e i suoi fratelli” Elio Vittorini scrive che la protagonista “sognava uva, un’uva di un dolce colore, giallo appannato dal freddo, e non uva da mangiare ma da abitare. Si trattava di boschi biondi con uccelli invisibili che cantavano, e con globi di polpa dove si entrava e si diventava felici. Lei era sola in un globo, ma sapeva che a tutti succedeva la stessa cosa, e sentiva una melodiosa certezza di compagnia”. Ognuno abita nel proprio acino d’uva e, certo dell’intima vicinanza di altre persone, può tentare di “approfittare” di questo lungo periodo difficile per sedersi e per osservare il proprio mondo interno: un mondo fluido che si muove, a volte rendendoci inquieti, a volte appagando il nostro desiderio di senso e di amore.