Piercing, tattoo, capelli arcobaleno, look stravaganti “colorano” il corpo dei ragazzi con le loro pennellate variopinte.
Qualcuno storce il naso, qualcuno strizza l’occhio, qualcuno ammicca divertito, qualcuno scuote la testa infastidito. È un corpo che parla e fa parlare, che si mostra e viene visto; non resta in silenzio, non passa inosservato. Cosa dice l’adolescente mentre gioca col suo corpo e vi lascia la sua traccia colorata?
Il corpo è la mia casa. È involucro che mi contiene e mi protegge, mi accompagna per il mondo, mi presenta e mi rappresenta. Grazie ad esso vengo conosciuto, attraverso esso verrò riconosciuto. È qualcosa che mi è caro, intimo, vicino, un compagno per la vita, starà con me per sempre. Eppure, per assurdo, non l’ho potuto scegliere io…
Il mio corpo è una casa ereditata. Con questa forma mi è stato consegnato, me lo sono trovato addosso già “confezionato”, senza contributi né pareri, senza poter far cambi o resi.
Il mio corpo adolescente è una casa ancora estranea, in via di revisione, di “ristrutturazione”. Porta con sé tracce del passato, accanto a parti ancora in divenire, di cui non conosco il volto che sarà definitivo. Un “cantiere aperto” pieno di ampliamenti e trasformazioni, ma il progetto non è il mio. Ancora una volta mi trovo ad osservare con occhi un po’ sgranati i lavori in corso che giorno dopo giorno evolvono, senza chiedermi il permesso. Lo sento ingombrante, rumoroso, impacciato, piccolo, grande, basso, grasso; insomma, io lo avrei pensato con forme differenti. Dovrò guardarlo a fondo e poi manipolarlo un po’, per sentirlo finalmente “roba mia”.
Il corpo è la mia tela, ci dipingo sopra io. Lo decoro, lo abbellisco, se voglio lo pasticcio, ma che sia un pasticcio mio. Se non posso essere l’architetto voglio almeno essere l’arredatore di questa casa che mi trovo ad abitare. Lo voglio colorare, ornare, pitturare, per sentirmi artefice e creativo, un po’ come un pittore che mette la sua firma.
A volte basterà un tocco più leggero, giocando con vestiti, tinte, trucchi ed accessori: metto, tolgo, aggiungo, invento per provare a raccontare un po’ chi sono. Ci vuole qualcosa che si noti e mi renda distinguibile: non sono uno in mezzo a tanti; confondermi tra la folla mi fa sentire perso. Un segno riconoscibile, che già alla prima occhiata possa gridare che ci sono, e sono questo qua.
Altre volte serve invece un intervento radicale, una trasformazione duratura, che nel tempo resti impressa e divenga parte di me. Un gesto forte, coraggioso, a volte anche un po’ azzardato, che parli della mia capacità di schierarmi, di provocare, di prender posizione; di afferrare ciò che mi piace e sceglierlo per sempre. Oppure di raccontare qualcosa di importante, un ricordo, un passaggio, da rendere indelebile, affinché non voli via.
Ad essere sincero, a volte questo corpo lo strapazzo un po’. Sarà che non mi piace, sarà che sfugge al mio controllo; a volte mi tradisce, va un po’ dove gli pare, segue un corso tutto suo. Allora cerco di “domarlo”: azioni, cure e trattamenti, per avvicinarlo all’ideale che ho di me. Vorrei piegarlo al mio volere, dominarlo, sentirlo in mano mia. Dovrebbe urlare a tutti chi IO SONO, e invece a volte appare incerto e muto; più capace di tradire le mie incertezze che pronto a rivelare la mia essenza.
Vorrei dicesse a chiare lettere che non sono più un bambino; un dogma da incidermi sulla pelle, per non lasciare spazio al dubbio. Lo deve spiegare ai miei genitori, che talvolta mi confondono col piccolino che ero prima. Lo deve dire ai miei amici, perché mi riconoscano e mi facciano spazio accanto a loro.
L’importante, comunque, è che comunichi qualcosa, un messaggio che a voce fa fatica ad arrivare. Aspetto, gesti e movimenti hanno un linguaggio più immediato; senza troppi giri di parole fanno capire di che pasta sono fatto, chi nei miei sogni vorrei essere, a che mondo vorrei appartenere.