Uno smisurato sogno sospeso.
Qualche volta accade che una donna desideri intensamente avere un figlio e che non ci riesca o che decida, nonostante il desiderio, di non averlo. Rimane in lei, così, un desiderio sospeso, non avverato. Non un piccolo desiderio e non un capriccio: uno smisurato sogno, sognato da quando era una bambina.
Il corpo non aiuta a lenire il dolore: ogni mese ricorda l’occasione mancata o la scelta difficile. Ogni rapporto intimo si svolge su un letto di consapevolezza, che allontana la mente dall’attimo e la porta in un luogo che non smette mai di esistere e che è il luogo di quel figlio che non c’è. Un bambino a cui spesso quella donna si rivolge, scrivendo lettere immaginarie.
Un bambino che, nel cuore, esiste eccome.
Un vaso vuoto.
Non siamo qui a riflettere sulle cause che impediscono la procreazione o sui motivi della scelta di non avere un figlio: possono essere molteplici. Né siamo qui a parlare di tutte le donne, come se tutte le donne dovessero sentire i medesimi bisogni o coltivare gli stessi sogni. Parliamo solo di quel tipo di donna lì: quella che desidera, ma che non può avere o che sceglie di non avere.
Si sente un vaso, e non c’è nulla dentro: niente terra fertile o, se la terra c’è, manca il seme. Nessun germoglio in quel ventre vuoto. Nessuna pienezza a colmare uno spazio che non cessa mai di ribadire la propria esistenza. Nessun figlio cui raccontare le storie e da guardare mentre dorme, da abbracciare con pelle, sguardo e cuore intero; nessun nutrimento da dare e da prendere attraverso un cordone ombelicale, nessuna “carne della mia carne”.
Come carta su ferite aperte, spesso si aggiunge il rapporto con gli altri. A volte i conoscenti (non confidenti) pongono con leggerezza domande che sono macigni oppure elargiscono consigli che graffiano un’intimità già sofferente. E poi, là fuori, c’è la vita, con le gravidanze delle amiche che, per quanto preziose e attente, vivono una gioia che non si compirà mai.
Dare forma al mare.
Si tratta allora di provare ad arginare il dolore e di far nascere la vita ai suoi confini. Penso al mare, di cui non vediamo tutte le sponde, e al paziente lavoro di dargli una forma, di renderlo contenibile nel nostro sguardo, di trasformarlo in un lago di acqua marina. Potremo così girargli intorno, indugiarvi e scrutarlo, ma anche fare altro sulle sue spiagge, e anche più lontano. Bagnerà certamente la terra di lacrime, ma su quel confine, su quel lembo di sabbia, ci saranno conchiglie, sassolini colorati, tornerà la vita.
Per trasformare il mare in un lago, è necessario nuotarci dentro. Lo si vorrebbe evitare, ma quella è la strada. Ci si può addentrare insieme, nell’oceano, in fosse scure vertiginose fredde. Si può imparare a starci dentro, non più sole, per poi provare a rendere fertile l’esperienza del limite. O per riuscire a penetrare insieme i motivi più intimi di quella scelta difficile: quei motivi che la rendono più solida perché fanno parte della nostra storia, anche se nei suoi angoli scuri.
Nella ricchezza di quell’oceano spaventoso ma variegato si potranno scorgere nuove possibili risposte al bisogno di generare. Nuove occasioni per prendersi cura di una vita, di un sogno. Nuove forme per passare un’eredità di affetti, di vissuti, di impressioni, di storie raccontate. Nuovi modi per lasciare la propria impronta sulla sabbia e per amare ciò in cui -quella impronta e quella sabbia- si trasformeranno nel tempo.