È curioso come proprio il termine “limite”, che rimanda inequivocabilmente alla finitezza, includa in sé una molteplicità di significati, aprendo ad un universo semantico poliedrico, tutt’altro che limitato.
Il limite è una barriera, un divieto, un impedimento che blocca, frustra, infastidisce, fa arrabbiare. È una impossibilità, una incapacità, un’insufficienza che deprime, intristisce, strazia. Ogni limite contiene in sé il germe del limite ultimo, la morte, che atterrisce, spaventa, dispera. Questo è il limite contro cui da sempre l’uomo si scontra e sbatte, tentando a volte di negarlo e rifiutarlo, a volte di abbatterlo e sfondarlo, altre ancora di aggirarlo, spostarlo o superarlo. Negli ultimi dieci anni sono numerose le produzioni artistiche tra libri, film, canzoni e serie TV in cui il termine LIMITLESS torreggia fiero nel titolo. Ma già nell’800 il poeta W. Blacke, lanciando un invito raccolto successivamente dal gruppo musicale The Doors, raccomandava di varcare le soglie della percezione per cogliere l’essenza infinita delle cose. E ancor prima si narrava dell’ardore di Ulisse, la cui smania lo ha spinto fino ad oltrepassare le Colonne d’Ercole, abbracciando l’incertezza dell’ignoto in nome dell’amore per la conoscenza. A ben guardare, se l’uomo fosse stato capace di pascolare comodamente dentro il limite, l’Eden a quest’ora non sarebbe un luogo tanto agognato quanto disabitato. La spinta al suo superamento è all’origine delle più celebri punizioni divine ma è anche il propulsore dei più importanti passaggi evolutivi. Ad iniziare dal momento della nascita, in cui il bambino fa irruzione nel mondo aprendosi un varco, facendosi strada per uscire dal proprio guscio – confine.
Il limite però non è solo questo. Contiene in sé anche un aspetto “buono”, amico, alleato che l’uomo non respinge né rifugge, ma che al contrario cerca, sottolinea, ribadisce. È il confine che delinea, separa e riconosce le differenze; è il profilo che definisce, demarca e dà la forma. L’uomo ne ha un profondo bisogno per uscire dall’indistinzione e dalla confusione, per tratteggiare il proprio volto, per raccontare ciò che è, per distinguersi da ciò che non è. Complici i vincitori del recente Festival di Sanremo, mi vengono in mente gli inni urlati delle nuove generazioni, che cantando a squarciagola le differenze, tracciano un limite distintivo tra un NOI ed un VOI, per potersi meglio sentire e definire: “Siamo fuori di testa, ma diversi da loro!” (Maneskin, Zitti e buoni). Il limite fa da argine, contiene ed incanala. L’uomo gli si rivolge per ricevere sostanza e compattezza, per non disperdersi, sfaldarsi o sfilacciarsi. È infatti solo la materia allo sato aeriforme che si espande in modo potenzialmente illimitato, arrivando però a rarefarsi, evaporare, dissolversi. E ancora l’uomo invoca il limite per farsi rispettare, per preservare diritti e dignità, per evitare invasioni non autorizzate. Lo cerca per proteggersi e ripararsi dalla vertigine dell’ignoto; se ne serve per resistere al “canto delle sirene”, il dolce richiamo degli eccessi, tanto allettante quanto potenzialmente mortale. Se non fosse stato attratto oltre ogni limite dal fulgore del sole, Icaro avrebbe concluso il suo volo planando dolcemente fino al suolo invece che precipitare in mare con le ali disciolte. Si potrebbe dire che il limite che “fa più male” ha la forma di una porta sbattuta in faccia, di un taglio netto che recide come una ghigliottina, di un muro opaco e muto che separa senza appello il bene dal male, il concesso dal vietato, il dentro dal fuori. È l’orlo di un precipizio, il filo di un rasoio, la fune di un equilibrista che non lascia margine né spazio di manovra.
Più di aiuto mi sembra essere l’immagine del limite come zona di frontiera, una sorta di intercapedine, di area di mezzo che, in quanto tale, mantiene uno spessore e una tridimensionalità dentro cui c’è agio per muoversi e per far sì che qualcosa accada. È un territorio che separa realtà distinte ma confinanti, una membrana di contatto osmotica e permeabile, che consente scambi tra ciò che sta dentro e ciò che resta fuori, al di là del limite: il diverso, l’altro, l’oltre, l’ignoto. È la zona delle trattative e dei patteggiamenti, tra popoli, tra categorie, tra generazioni. Un luogo in cui la differenza e la diversità vengono riconosciute e nel contempo trovano modo di interfacciarsi e dialogare. È la siepe di Leopardi che se da un lato “il guardo esclude”, impedendo la percezione dei sensi, dall’altro spalanca la mente fino a farle figurare l’infinito. È la East Side Gallery, quella parte superstite di Muro di Berlino che da simbolo di incomunicabilità tra due mondi, si è trasformata in tela per dipingere e raccontare la ricchezza dell’incontro. È il bagnasciuga, dove gli estremi del mare e della terra si sovrappongono, generando un luogo ibrido e unico che sostiene come la terra e bagna come il mare.
Quante cose preziose avvengono in questa fascia di confine, in questa terra di nessuno in cui il dentro e il fuori separandosi si sfiorano, creando un’area “contaminata”, impura, ricca. Quante favole iniziano proprio “al limitar del bosco”, aprendo così a viaggi fantastici ed avventurosi. Quante creazioni artistiche germogliano nella terra del Preconscio, l’area di frontiera che separa la nostra sfera cosciente dalla selva intricata dell’inconscio, col suo ribollire di pulsioni, desideri, spinte e bisogni. Anche i sogni nascono proprio lì, nel luogo di incontro tra Es ed Io, dove l’uno mette in circolo energia e contenuti e l’altro dona una forma per rappresentarli. Come scrive lo psicoanalista Odgen “E’ al confine metaforico tra preconscio e inconscio che si collocano l’esperienza del sogno e quella della reverie. In esse ha origine ogni tipo di gioco e creatività.” (Conversazioni al confine del sogno, 2003).
Questa idea del limite scalza e ribalta le accezioni negative del termine. Non è un tranciare, un recidere, un occludere. È piuttosto un separare e un distinguere realtà diverse ma contigue che tra loro intessono un rapporto, a volte reale e concreto, altre volte immaginario e fantasticato, in ogni caso sempre capace di generare scambio e trasformazione.
Un’ultima riflessione, su questo nostro tempo, pieno di nuovi limiti, divieti, restrizioni. Ciò che prima era bello e giusto adesso è temuto ed evitato, non perché sbagliato in sé ma perché “sbagliato” ora. È un limite che protegge ma che non riesce a non far male. Ha stravolto e ridefinito quei confini che in precedenza sentivamo familiari, confortevoli e più in sintonia coi nostri bisogni. Può esserci forse di aiuto ricordare come qualsiasi limite sia un perimetro che, mentre viene tracciato, definisce un’area inclusa, uno spazio interno. Restare troppo concentrati sul luogo del limite e su ciò che esso preclude rischia di farci muovere come una mosca chiusa in una stanza, che continua a sbattere contro il vetro nella vana speranza di riguadagnare l’immensità del cielo. E nel frattempo farci scordare che dentro la stanza c’è ancora uno spazio (magari piccolo, magari scomodo) “da arredare”, da arricchire, di cui occuparsi. Finché ci rimane un luogo in cui poter continuare a creare, sognare, volare, il limite non riuscirà a presentarsi ed imporsi nella sua veste più temuta, quella totalmente mortificante o inesorabilmente mortifera.