Trasformare le zucche in carrozze

Piacersi, darsi valore, stare bene con se stessi… Ecco alcuni volti della tanto celebre autostima, così frequentemente nominata, più per denunciarne una scomoda carenza o lamentarne una sofferta insufficienza che per alludere ad una sua piacevole influenza. “Purtroppo, dottoressa, non ho abbastanza autostima…”.

Autostima ed immagine ideale. L’autostima non sempre bada a ciò che siamo, al nostro insieme di tratti, modalità, doti, limiti e qualità. Essa è più sensibile all’IDEALE, a ciò che vorremmo essere, a ciò a cui miriamo e a cui desideriamo assomigliare. È frutto del confronto tra un modello che ci piacerebbe raggiungere e la nostra percezione di noi stessi; un paragone tra l’ESSERE e il VOLER ESSERE. Tanto più lo scarto tra le due immagini sarà esiguo, tanto più saremo soddisfatti di noi stessi; al contrario una scarsa sovrapposizione tra i due poli genererà svilimento e insicurezza.

Immagine di sé. Ma l’immagine che ciascuno ha di se stesso non è una semplice fotografia fedele alla realtà, ritratto accurato e oggettivo di vizi e virtù, pregi e difetti, trionfi e cadute. Essa è piuttosto un agglomerato complesso di rappresentazioni personali, collezionate nel corso della propria storia. Si è nutrita e abbeverata del modo in cui siamo stati guardati, trattati, pensati nelle prime relazioni; ha assorbito i riflessi baluginati negli occhi di chi ci stava accanto.
L’immagine di sé non ha la leggerezza del venticello che si posa lieve sulla pelle; possiede radici antiche, che si insinuano profonde negli anfratti della nostra identità. Trae origine dall’infanzia, quando attenzioni, sguardi, conferme e riconoscimenti abbozzano e poi rimpolpano il valore personale.

L’incantesimo di Cenerentola. Come mi ha fatto notare un giovane uomo in psicoterapia, non è facile, per chi si è sempre sentito come Cenerentola, scrollarsi di dosso la cenere del focolare, svestire i panni logori, indossare lustrini e paillettes per recarsi elegantemente al ballo. Abituati a percepirsi indegni, poveri e non meritevoli, relegati in una posizione di inferiorità, disconosciuti nei propri bisogni, ignorati nelle proprie espressioni, come ci si può sentire improvvisamente degni di presentarsi al cospetto del principe?
Nella realtà non compare la Fata Madrina che, con un colpo di bacchetta, cancella anni di prostrazione e svilimento sostituendoli con un piglio fiero ed orgoglioso con cui volteggiare leggiadri a corte. Sarà più facile tirarsi appresso il proprio strascico di insufficienza, inadeguatezza e vergogna che sul più bello farà lo sgambetto, giusto prima di fare ingresso a palazzo.
Perché la propria auto immagine accompagna e direziona: condiziona scelte, porta a rinunce, focalizza mete, calamita esperienze, decreta fallimenti.
E qualsiasi tentativo di darsi un tono, sospinti da un fugace complimento o da una momentanea conferma, rischia di restare un soffio effimero, evanescente come un incantesimo destinato a svanire a mezzanotte.
È difficile cambiare sguardo su di sé, modificare il proprio modo di percepirsi, affrancarsi da ruoli e posizioni precocemente calati dall’alto e lentamente penetrati dentro. Fuori dalle favole non esistono formule magiche capaci di far spuntare carrozze dalle zucche e di trasformare vissuti di insufficienza in floride autostime.

Darsi valore. Si tratta piuttosto di un lavoro paziente, che poco assomiglia all’immediatezza dell’incantesimo, ma che può rivelare scenari altrettanto sorprendenti. È un percorso che passa attraverso una profonda conoscenza di sé, di ciò che si è e ciò che ci si porta dentro: caratteristiche fisiche, qualità, mancanze, comportamenti tipici, modi di sentire e di emozionarsi, bisogni, desideri, ambizioni, difese. Da questo riconoscimento interessato nasce la possibilità di dare valore al proprio modo di essere, unico ed irriducibile, “che ha assunto proprio quella forma lì”.
Rinunciando al richiamo seduttivo e ingannevole dell’ideale, si possono tenere dentro limiti e difficoltà, e nel contempo scorgere elementi preziosi e distintivi, magari non ancora raffinati, ma di indubbia qualità.
Ci sono relazioni in cui sembra non esserci spazio “per un cambio d’abito”, rapporti che sembrano buttare addosso i soliti stracci, come se non ci ritenessero all’altezza di indossare altro. Allora sarà necessario mettere una distanza, volgersi altrove, alla ricerca di sguardi differenti, capaci di un riconoscimento più pieno e di un rispecchiamento più limpido.
Solo in questo modo si potrà provare a tessere il proprio vestito (non per forza scintillante di cristalli) e recarsi fieramente al ballo, avanzando disinvolti verso la pista, proponendo il proprio personale passo di danza.
In caso contrario si è condannati all’insoddisfazione perenne, sancita da un paragone incessante ed inesorabilmente frustrante: vorrei essere ciò che non sono, per questo non mi piacerò mai.

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