“Dimenticate la vostra offerta perfetta. C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce.” (L. Cohen)
Quante citazioni, aforismi e celebri riflessioni dedicati alla perfezione, quest’anno perfino “ammessa” alla prima prova dell’Esame di Maturità grazie “All’elogio dell’imperfezione” di Rita Levi Montalcini. C’è chi la celebra e chi la biasima, i più ne additano i difetti, quasi a volerla scalzare dal piedistallo su cui se ne sta splendidamente adagiata. Accusata di essere inaccessibile, statica, noiosa, persino inesistente: “Le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori e non esistono” (Aristotele).
Di fatto l’idea della perfezione continua ad esercitare il suo fascino sibillino, compagna silenziosa delle umane ricerche e prestazioni. Cosa ci tiene così legati a questo riferimento irraggiungibile? Perché la perfezione ancora ci incanta, nonostante sia stata smascherata per la sua ingannevole apparenza?
L’inganno. La perfezione in effetti incastra; chi se ne fa sedurre è condannato all’infelicità perenne. Nel suo dominio le mete sono asintoti, punti inafferrabili verso cui le mani tendono, per poi sbriciolarsi tra le dita. Lo scarto da essi diviene mancanza, una ferita da cui fuoriescono ansia, vergogna, inadeguatezza, colpa.
Tra i suoi più fedeli inseguitori troviamo gli “impeccabili”; alla ricerca del risultato perfetto, senza grinze né increspature, curano ogni dettaglio, adorano la precisione. In tutto ciò che fanno, molto controllo e poco amore, insieme a un’esigenza ansiosa che ogni cosa vada come “da programma”. Qualsiasi sgarro rischia di far franare la facciata, rivelando ciò che affannosamente dietro si nasconde. Nel regno del perfezionista esistono solo “il tutto” o “il nulla”, nessuna sfumatura, nessuna via di mezzo: ciò che non è perfetto diviene subito catastrofe, una disfatta totale, un rovinoso tracollo. A protezione del precipizio sorgono solide barricate, fatte di precisione, esattezza, meticolosità. Dietro ad esse ciò che è meglio non vedere, qualcosa di pericoloso, inaccettabile, distante dalla propria immagine ideale. Una sfarzosa scenografia copre un “dietro le quinte” segreto e caotico, che deve restare murato. Ci si mostra ineccepibili per non aprire la porta del sospetto, che si spalancherebbe sulle ombre della propria imperfezione.
Altri accaniti sostenitori della perfezione sono gli incontentabili ambiziosi, che puntano alle stelle senza soste né fermate. La scalata che li porta in orbita poggia però su un grande equivoco: “se brillo come il sole verrò sicuramente visto e, forse, finalmente amato”. Il più bravo, il più bello, il più speciale; un’affannosa ricerca di traguardi, sguardi e applausi, nella speranza di insediarsi nella mente e nel cuore di qualcuno. In alternativa la grigia mediocrità, accompagnata dal buio dell’oblio. Ma le mete grandiose, poste ad altezze stratosferiche, spesso restano lassù, come irraggiungibili chimere. E fan sentire incapaci, insoddisfatti, difettosi; così al trionfo subentra la vergogna, al piedistallo la fossa.
La nostalgia. Accanto ai perfezionisti “per patologia”, troviamo, a mio avviso, coloro che lanciano sguardi languidi in direzione della perfezione, mossi da una sorta di soffusa nostalgia.
Ciascuno, nel corso della propria storia, può infatti aver attraversato vissuti di meravigliosa perfezione: attimi di armonia incondizionata, di soddisfazione assoluta, di sintonizzazione piena. Il “M’illumino d’immenso” di Ungaretti; uno stato di beatitudine cosmica, di compartecipazione completa, di contatto profondo con il tutto. È il luogo del “non bisogno”, dove tutto c’è, nulla manca, niente eccede.
Si tratta di esperienze talvolta molto antiche, rimaste dentro non come vividi ricordi ma come “pennellate emotive”: sfumature, tonalità, note, accenti. Impressioni, annidate a livello della memoria implicita, che hanno lasciato orme, scavato solchi, suggerito direzioni, senza mai aver ricevuto volto, nome, né parola.
Un apice che, una volta conosciuto, verrà poi eternamente corteggiato. E così si va, alla ricerca di sensazioni, successi e sguardi che portino a rivivere una pienezza già provata ma ormai perduta. Una tensione irrequieta che a volte acceca: fa perdere di vista “l’imperfetto che c’è, a favore del perfetto che non c’è più”. Si rincorre un bagliore fulgido e sfuggente, ignorando i raggi che coraggiosi filtrano tra le crepe, illuminando per un attimo tutto ciò che c’è. Momenti di luce fugaci ma intensi che in parte ripagano per la faticosa rinuncia alla perfezione perenne. Certo, poi il sole si sposta e la luce si affievolisce, fino a spegnersi del tutto.
“…. La vide d’un tratto composta in una bellezza sorprendente, senza incrinature. Durò un attimo, come se lei sapesse benissimo dove si era spinta, e non avesse intenzione di restarci. Così spostò il peso sull’altro fianco, alzando una mano a sistemarsi i capelli, tornando imperfetta”. (Baricco, Mr Gwyn)
Ecco il vero nemico della perfezione: lo scorrere del tempo. C’è un istante in cui tutto sembra a posto, nella sua meravigliosa rotondità. Poi la vita passa e scombina, crea spigoli, mette in disordine, scompiglia. E la transitoria perfezione viene travolta dalla vitalità scomposta di ciò che passa e cambia. È una perdita con cui si deve fare i conti, pena l’eterna condanna a sentirsi mancanti, indegni, difettosi, insoddisfatti. La sfida è star dentro questa dimensione insatura, non colma, che a volte, per caso, incontra un’ondata di pienezza, per poi però svuotarsi nuovamente.
Quanti gesti, opere e creazioni nascono per immortalare attimi di fuggente perfezione, e sottrarli così alle grinfie del tempo e della vita. Fotografie, sculture, ritratti provano a trattenere in sé pillole di splendore, imprigionandole in una forma definita e in una sostanza duratura.
Un volto fisso e statico, un’anima congelata; questa è la condizione per rimanere perfetti. Il dinamismo è bandito dal regno della perfezione perché incrina e contamina, introduce pieghe e sgualciture. Un caro prezzo da pagare, un “difetto” difficile da ignorare. Meglio forse affrontare la perdita, che poi troppo tragica non è.
A volte dalle “variazioni sul tema” scaturiscono i guizzi e le scintille che innescano le svolte. Non dalla pedestre replica di un copione perfetto e sempre uguale. Le “mutazioni” sono finestre che affacciano su vedute fortuite ed inattese, aprendo lo sguardo all’improvvisazione, con tutte le sue sorprendenti imperfezioni.