Una quindicina d’anni fa -era ottobre- conobbi in studio una giovane donna. Bella come un fiore, si sedette di fronte a me e pronunciò le sue prime parole: “Dottoressa, io sono infelice”.
Questo, l’incipit della nostra storia.
Abbiamo camminato insieme, circondate dai suoi ricordi, dalle sue afflizioni; avvolte dalla penombra dorata della stanza, siamo discese nei suoi drammi, ho assistito al suo farsi male. Come foglie autunnali si sono raccolti intorno a noi i nostri neonati ricordi. E con il passare degli anni la neve ghiacciata, che la proteggeva e la feriva, ha cominciato a sciogliersi con esitante prudenza. Ho assistito allo spuntare dei suoi primi e rari sorrisi pieni: crochi colorati e coraggiosi nel bianco. Come un naufrago, finalmente sulla sabbia calda della riva, l’ho vista scaldarsi al sole. Fioriva, colorandosi.
Un giorno, ci siamo salutate. Ha scelto lei di andarsene; io avrei preferito accompagnarla ancora.
Dopo anni, lo ricordo come fosse appena accaduto, ricevetti una sua telefonata: mi chiedeva un appuntamento. Arrivò, radiosa come il sole, con un contagioso morbido rosato sorriso, gli occhi pieni di luce: “Dottoressa, sono tornata per dirLe che sono felice! Ho imparato a guardarmi con quello sguardo tenero con cui mi guardava Lei…”.
La tenerezza è una culla.
Non c’è persona che non possa accoccolarvisi dentro, come un cucciolo nell’odore avvolgente e rassicurante della madre; non c’è età a cui è negata. Il neonato che siamo stati ricorda ancora quel caldo senso di protezione, oppure continua ad avvertirne la straziante originaria mancanza. Farà fatica, questo secondo bambino del passato, ad accogliere un’offerta così soffice, esiterà a lasciarsi andare, a chiudere gli occhi, ad abbandonarsi al dormiveglia trasognante. Arrabbiato, spaventato, si ribellerà; ma forse un giorno riuscirà a fidarsi e cederà alla tenerezza.
Ricordo l’atmosfera sognante dei nostri incontri. Ricordo di aver sempre potuto attingere, dentro di me, a una sorgente di calore e di coinvolgimento per quella donna così fresca, eppure così dolente e lacerata. La tenerezza che nutrivo per lei, che lei inconsapevolmente muoveva in me, aiutava a superare gli spigoli taglienti, le violente scorrerie dell’insensibilità, l’intermittente sensazione di inutilità e di vuoto.
Ho assistito, partecipato, alla sua rinascita. Investivo quella bambina, ora adulta, di affetto, coltivando la sua capacità di fare altrettanto. L’ho avuta dentro di me, ho avuto -dentro la mia mente- qualcosa che lei non sapeva di avere. Non sapeva di essere preziosa, non sapeva di essere amabile.
L’ho vista crescere nel mio pensiero, nascere, separarsi da me e iniziare a camminare da sola.
“La psicoanalisi è essenzialmente una cura mediante l’amore.”
(Freud, da una lettera a Jung)